Ho sempre scritto in gran quantità, preso dalla febbre, dai 16 ai 35 anni.
Esempio, durante le pause in stabilimento, dove il mio compito era di spostare blocchi di polistirolo trasportandoli sulla schiena come un mulo dalla “Zona rimessa” alla “Zona taglio”, una via crucis di cento metri col blocco a tagliarmi spalla e collo, come un giovane cristo della plastica, insomma durante quelle pause, nascosto assieme ai topi dietro il ferro e l’acciaio dei macchinari, col culo sull’olio emulsionabile, tiravo fuori un quaderno e più spesso tocchi di carta e scrivevo. Era la fabbrica delle parole in quegli anni!
Ma chi lo immaginava che quella carta piena fino all’orlo sarebbe poi diventata un tot di racconti o addirittura una raccolta intera o ancora più incredibile un romanzo. Eppure, eccoci qui. A rimirar le stramberie della vita. Una dietro l’altra proprio.
Adesso però, in questo caldo agosto del 2018, che ho preso a sommarne 44 di anni, mi accorgo che quell’energia all’apparenza inesauribile, traballa. Si è spostata la febbre della scrittura, dai fogli alla schiena, ben pesante.
Gli anni, almeno a me, non hanno portato al “mestiere”, che a sentire gli scrittori miei coetanei e soprattutto più in là con l’età è il metodo di trovare fluidità nel far uscire parole e storie, l’esperienza che semplifica.
Gli anni a me hanno solo avvitato la parola una sull’altra, e così le storie, le une sopra le altre. Il caos!
A questo ci aggiungo ben bene che ho voluto strafare.
“Hai narrato trent’anni buoni d’Italia, dagli Ottanta a oggi, vuoi cambiare oppure no? Vuoi ripartire da un nuovo zero oppure no?”, mi son detto appena riattaccato con la scrittura, dopo un anno in cui avevo deciso “basta così, fine, addio, ciao”.
«Il Novecento!», ho urlato alla mia faccia che mi fissava dallo specchio.
«Il Novecento! Qui da noi!», ho aggiunto, in questo posto a metà tra il Friuli e il Veneto, dove la storia ha spaccato la terra e la carne ben più che altrove.
Fame.
Emigrazione.
Prima guerra mondiale.
Caporetto.
Fame.
Emigrazione.
Barricate e socialismo.
Fascismo.
Seconda guerra mondiale.
Emigrazione.
Cotonifici.
Fabbriche.
Metalmezzadri.
Sviluppo e ancora sviluppo.
Etc etc etc…
Ripartire da zero. Questo mi sono urlato: «Il Novecento! Qui da noi! Riparti da lì!»
Dopo due decenni di fogli straripanti, otto romanzi, vari reportage e spettacoli a teatro, dovevo andare oltre, ma tornando indietro. E così ho fatto, da dodici mesi in qua. E così Romanzo Nuovo sarà del tutto diverso rispetto a ciò che ho scritto, per tema, per forma.
La forma!
Ecco l’altro punto. «Si può dire tutto, si può scrivere tutto, basta non farlo con parole che donano Realtà, vuol solo fingere di sapere il popolo», avvertiva Céline.
Ci sono zone d’ombra nella vita dei poveri del Novecento ancora inesplorate, poco e male narrate, spesso da chi la fame e la fatica le conosce solo come concetto, e arrivederci. Professori. Baroni e figli. Politici e parenti. Giornalisti e gran signori. Media alta altissima borghesia, oggi più che nel passato. Han diritto solo loro alla scrittura, si direbbe. E così quelle zone d’ombra crollano nel buio, nella cantina della storia. E’ quello il posto dei poveri, anche in letteratura: la cantina.
Ma mica sempre. Si può porre rimedio. Si può far ballare parte della storia. Se si vien su da quel buio.
Tuttavia il “mestiere” dovrebbe avermi ben insegnato di starmene lontano da certe storie, che son peggio delle compagnie sbagliate, altroché. «Sta alla larga dal Novecento, dal sangue, dalla morte!», doveva insistere a dirmi il “mestiere”, il tempo, la saggezza.
Quale momento migliore, invece, per fare il bastian contrario. Van mica a cercarsi guai quegli scrittoroni là, di alta famiglia. Allora inzuppiamoci la testa tutta dentro, ho pensato. Andiamo alla guerra del Novecento!
Ed eccomi qui, in pieno agosto, senza aver manco sfiorato per mezz’ora una straccio di spiaggia, fisso e inchiodato alla penna a scrivere su tocchi di carta, a 44 anni, fingendo di averne 16.
«E avanti col cristo, che la processiòn si ingruma», avrebbe detto ora il mio prete.
A scrivere!